L’istituto giuridico della servitù di uso pubblico non è espressamente disciplinata dal legislatore ma trova regolamentazione in forza della prassi giurisprudenziale: i dettami della Corte di Cassazione stabiliscono che la servitù di uso pubblico viene costituita per soddisfare un’esigenza di carattere generale, diretta a realizzare un fine di pubblico interesse, e che consiste in un peso, quindi una limitazione, posto a carico di un bene immobile di “proprietà privata” (sia essa individuale o condominiale) a favore, non di un altro bene immobile, bensì di soggetti, i quali si identificano in una collettività indistinta di persone, che ne beneficiano uti cives (cfr. Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 2021, n.28869). Secondo il Consiglio di Stato « la servitù ad uso pubblico sussiste ogni volta in cui il comportamento del proprietario, pur se non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, ponga volontariamente, con carattere di continuità, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri della collettività “uti cives” – “e non uti singuli”, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato “indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto” » (Consiglio di Stato, sez. V, 14 febbraio 2012, n. 728).
Si ritiene, quindi, che una servitù di uso pubblico si ha quando il proprietario di un bene immobile mette a disposizione della generalità dei consociati, in maniera continuativa, il predetto bene per soddisfare un’esigenza comune ai membri della collettività; l’utilizzo di tale bene privato deve avvenire in maniera indiscriminata e deve sussistere un’oggettiva idoneità del bene privato a soddisfare un’esigenza comune.
Si precisano gli elementi che contraddistinguono, secondo la giurisprudenza, una servitù di uso pubblico: la proprietà di un bene immobile in capo ad un privato cittadino, l’utilizzo di tale bene immobile da parte della collettività, uti cives e non uti singulis, e l’utilizzo del bene immobile per il fine cui è destinato per soddisfare un’esigenza collettiva. In particolare, la sussistenza del diritto in questione si ha con la presenza di due requisiti: l’uso generalizzato, indiscriminato del bene immobile da parte di una collettività indeterminata di individui, come uti cives in quanto portatori di un interesse generale, e l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse, publica utilitas, perseguito tramite l’esercizio della servitù (cfr. Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2011, n. 354).
La costituzione del diritto di servitù di uso pubblico, secondo la giurisprudenza, può avvenire per atto scritto (ad es. con la stipulazione di una convenzione tra un Ente pubblico e il privato titolare del bene), per usucapione o per dicatio ad patriam. La costituzione per usucapione avviene quando concorrono le seguenti condizioni: l’uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse, il protarsi per il tempo necessario per l’usucapione (cfr. Cass. civ., sez. II, 29 novembre 2017, n. 28632); mentre la dicatio ad patriam consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dare vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità e non precariamente, un proprio bene a disposizione della collettività (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 12 maggio 2020, n. 2999; T.A.R. Roma, sez. II , 10 maggio 2021, n. 5458).
È opportuno sottolineare che non sussiste un diritto di servitù di uso pubblico quando il passaggio viene esercitato unicamente dai proprietari dei fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, ovvero da coloro che abbiano occasione di accedervi per esigenze connesse ad una privata utilizzazione, oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14 febbraio 2021, n. 728; Cass. civ., sez. II, 12 gennaio 2024, n. 1269).
Per quanto attiene la sfera processuale, la legittimazione ad agire o a resistere in giudizio a tutela di una servitù di uso pubblico spetta a ciascun cittadino appartenente alla collettività ed all’ente territoriale (cfr. Cass. civ., sez. II, 13 giugno 2019, n. 15931); infatti sul profilo della responsabilità si evidenzia l’orientamento giurisprudenziale (cfr. T.A.R. Napoli, sez. V, 04 febbraio 2004, n. 1582; T.A.R. Lecce, sez. I, 13 febbraio 2003, n. 460; T.A.R. Puglia, Sez. I, 07 febbraio 2008, n. 375) secondo cui l’esistenza di una servitù di uso pubblico comporta un dovere di intervento dell’ente pubblico responsabile per svolgere attività concrete di cura degli interessi pubblici.
Da ciò consegue che l’esistenza di una servitù di uso pubblico genera un dovere di intervento in capo all’Ente pubblico responsabile relativamente al luogo in cui si è costituita la servitù, nell’ambito delle attività concrete dirette alla cura degli interessi pubblici, poiché la costituzione della predetta servitù comporta che il bene, su cui questa è formata, rientri nel patrimonio dell’Ente pubblico inteso come complesso dei diritti vantati da quest’ultimo su beni pubblici e privati. Avendo l’Ente pubblico il dovere di cura e di gestione dei beni su cui è costituita una servitù di uso pubblico esso ha anche la responsabilità nel caso di sinistri.
Da ultimo si evidenziano talune opinioni contrarie circa la qualificazione di un diritto di servitù come un diritto “di uso pubblico”; in particolare Biondo Biondi in Trattato di diritto civile e commerciale, Le servitù, sottolinea, in primo luogo, che il diritto di servitù non può essere un diritto sui generis poiché il diritto di servitù ha una struttura costante e, in secondo luogo, che trattandosi di un diritto di servitù non può configurarsi un diritto di uso.