da SLRS | 9 Settembre 2024 | diritto immobiliare diritto agrario locazioni
In materia di ripartizione delle spese di manutenzione nell’ambito di un condominio, si ritiene di fare riferimento alle disposizioni di cui agli artt. 1125 e 1126 del codice civile. L’art. 1125 cod. civ., rubricato “Manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai”, stabilisce che «le spese per la manutenzione e ricostruzione dei soffitti, delle volte e dei solai sono sostenute in parti eguali dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, restando a carico del proprietario del piano superiore la copertura del pavimento e a carico del proprietario del piano inferiore l’intonaco, la tinta e la decorazione del soffitto». Ai sensi della suindicata disposizione, le spese di manutenzione e riparazione devono ripartirsi tra i proprietari dei due piani sovrastanti, ponendo, la norma, una presunzione di pari uso e pari utilità dei soffitti, volte e solai. La norma suddivide le spese necessarie per la manutenzione di tali manufatti (solai, soffitti, volte) in tre distinte categorie:
- spese che spettano ai proprietari dei due piani sovrapposti, in parti uguali tra loro (spese relative alla struttura del solaio);
- spese che spettano, interamente, al proprietario del piano superiore (spese per il pavimento o meglio, per qualsiasi accessorio costruttivo posto superiormente alla struttura del solaio);
- spese che spettano, interamente, al proprietario del piano inferiore (spese per l’intonaco, per la tinteggiatura e per la decorazione del soffitto o meglio, per qualsiasi accessorio costruttivo posto inferiormente alla struttura del solaio).
La norma si riferisce a tutti quei manufatti che abbiano lo scopo di dividere due piani sovrapposti. Come si evince da un’analisi testuale, le caratteristiche costruttive dei manufatti di separazione tra piani sono indifferenti: il testo utilizza i termini “solaio, soffitto e volta” come sinonimi, ma ciò che rileva è che il manufatto abbia la funzione di separazione dei piani: affinché sia ravvisabile un solaio occorre, quindi, che, al di sopra e al di sotto di esso, esistano due autonome porzioni immobiliari.
La struttura destinata alla separazione dei due piani sovrapposti si presume comune ai proprietari di tali due piani, salvo che diversamente risulti da un titolo contrario, il quale assegni difformemente la titolarità del bene; la Suprema Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. II, 23/03/1991, n. 3178), al riguardo, ha affermato l’inesistenza di un confine intermedio in quanto il solaio che separa il piano sottostante da quello sovrastante deve ritenersi, salva prova del contrario, di proprietà comune dei proprietari dei due piani costituendo l’inscindibile struttura divisoria tra le due realità con utilità e uso uguale e inseparabile.
Occorre evidenziare che la fattispecie regolata dall’art. 1125 c.c. non riguarda direttamente il condominio in qualità di “ente di gestione”: l’interesse che qui viene considerato è quello dei due proprietari esclusivi “frontisti” che fanno parte dell’edificio e tale interesse attiene alle separate sfere giuridiche dei due soggetti distinti, ma non si tratta di un interesse comune del condominio. In quest’ottica la giurisprudenza ha sottolineato che nel giudizio instaurato, ai sensi dell’art. 1125 c.c., per la divisione delle spese di manutenzione o ricostruzione del solaio divisorio comune, dal proprietario del piano sovrastante nei confronti del proprietario di quello inferiore o viceversa, non sussiste la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di altri soggetti e, specificamente, del condominio, in quanto il rapporto dedotto in giudizio è afferente solo alla titolarità del diritto di proprietà dei piani separati dal solaio (Cass. civ., sez. II, n. 1225/2003).
Dall’art. 1125 c.c. si distingue l’art. 1126 c.c., il quale fa riferimento alla ripartizione delle spese di riparazione o ricostruzione del lastrico solare di uso esclusivo. La norma stabilisce che «quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno».
Il lastrico solare può essere definito come quella superficie piana che è posta alla sommità del condominio e svolge essenzialmente la funzione di copertura dell’edificio di cui forma parte integrante sia sotto il profilo meramente materiale, sia sotto il profilo giuridico.
Il lastrico solare di cui all’art. 1126 c.c. non svolge la funzione di separazione di due piani contrapposti come il solaio in quanto costituisce un terrazzamento (cfr. Cass. civ., sez. II, n. 11029/2003) in uso esclusivo ad un condomino.
Veniamo alla situazione in cui – sempre in ambito condominiale – vi sia una unità con giardino privato, sovrastante un’autorimessa di proprietà esclusiva di altro condomino e nella quale vengano registrate delle infiltrazioni provenienti dal giardino sopra identificato. La fattispecie è stata oggetto di un contrasto giurisprudenziale: per lungo tempo, infatti, la Cassazione aveva regolamentato questa situazione richiamando il disposto dell’art. 1126 c.c. e aveva statuito che le spese di manutenzione conseguenti dovevano essere ripartite addebitandone la quota di 1/3 al proprietario sovrastante e la quota di 2/3 al proprietario sottostante (Cass. civ., sez. II, n. 1477/1999; n. 11283/1998; n. 1362/1989). Successivamente, si è verificato un significativo mutamento di impostazione, secondo cui a tale fattispecie non si doveva più applicare la disciplina di cui all’art. 1126 c.c., bensì quella di cui all’art. 1125 c.c. (Cass. civ., sez. IV, n. 12177/2017; Trib. Roma, sez. VI, 02/01/2015, n. 1; Cass. civ., sez. II, n. 15841/2011; Cass. civ., sez. II, 05/05/2010, n. 10858). Si è affermato, in particolare, che qualora si debba procedere alla manutenzione di un cortile/giardino “privato”, che funga da copertura per i locali sotterranei di proprietà di altri condomini, ai fini della ripartizione delle relative spese si deve procedere con l’applicazione analogica dell’art. 1125 c.c., il quale pone le spese relative alla manutenzione della parte della struttura complessa identificantesi con il pavimento del piano superiore a carico di colui che, con l’uso esclusivo, determina la necessità dell’intervento, in tal senso verificandosi un’applicazione particolare del principio generale dettato dall’art. 1123, comma 2, c.c. (Cass. civ., sez. VI/II, n. 21337/2017).
Il Tribunale di Roma (Trib. Roma, sez. VIII, 03/02/2023, n. 1873), da ultimo, si è uniformato a detto orientamento, affermando che il criterio di ripartizione delle spese per detta tipologia di interventi è quello di cui all’art. 1125 c.c., ovvero:
- spese per l’impermeabilizzazione del solaio sono addebitate in parti uguali tra il proprietario del giardino privato e il titolare dell’autorimessa;
- spese per la copertura del pavimento nonché per la rimozione, accantonamento e ripristino del giardino pensile sono poste a carico del proprietario esclusivo del giardino;
- spese per l’intonaco, la tinteggiatura e la decorazione del soffitto sono poste a gravame del proprietario dell’autorimessa.
In conclusione, nel caso in cui si presentino infiltrazioni d’acqua provenienti dal giardino privato di un condomino a danno dell’autorimessa di proprietà esclusiva di altro condomino, le spese di manutenzione vanno ripartite, ai sensi dell’art. 1125 c.c., solamente tra i due proprietari coinvolti, rimanendo il condominio estraneo alla questione e, di conseguenza, esonerato da qualunque spesa.
da SLRS | 23 Luglio 2024 | diritto immobiliare diritto agrario locazioni
L’istituto giuridico della servitù di uso pubblico non è espressamente disciplinata dal legislatore ma trova regolamentazione in forza della prassi giurisprudenziale: i dettami della Corte di Cassazione stabiliscono che la servitù di uso pubblico viene costituita per soddisfare un’esigenza di carattere generale, diretta a realizzare un fine di pubblico interesse, e che consiste in un peso, quindi una limitazione, posto a carico di un bene immobile di “proprietà privata” (sia essa individuale o condominiale) a favore, non di un altro bene immobile, bensì di soggetti, i quali si identificano in una collettività indistinta di persone, che ne beneficiano uti cives (cfr. Cass. civ., sez. II, 19 ottobre 2021, n.28869). Secondo il Consiglio di Stato « la servitù ad uso pubblico sussiste ogni volta in cui il comportamento del proprietario, pur se non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, ponga volontariamente, con carattere di continuità, un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri della collettività “uti cives” – “e non uti singuli”, ossia quali soggetti che si trovano in una posizione qualificata rispetto al bene gravato “indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto” » (Consiglio di Stato, sez. V, 14 febbraio 2012, n. 728).
Si ritiene, quindi, che una servitù di uso pubblico si ha quando il proprietario di un bene immobile mette a disposizione della generalità dei consociati, in maniera continuativa, il predetto bene per soddisfare un’esigenza comune ai membri della collettività; l’utilizzo di tale bene privato deve avvenire in maniera indiscriminata e deve sussistere un’oggettiva idoneità del bene privato a soddisfare un’esigenza comune.
Si precisano gli elementi che contraddistinguono, secondo la giurisprudenza, una servitù di uso pubblico: la proprietà di un bene immobile in capo ad un privato cittadino, l’utilizzo di tale bene immobile da parte della collettività, uti cives e non uti singulis, e l’utilizzo del bene immobile per il fine cui è destinato per soddisfare un’esigenza collettiva. In particolare, la sussistenza del diritto in questione si ha con la presenza di due requisiti: l’uso generalizzato, indiscriminato del bene immobile da parte di una collettività indeterminata di individui, come uti cives in quanto portatori di un interesse generale, e l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse, publica utilitas, perseguito tramite l’esercizio della servitù (cfr. Cass. civ., sez. II, 10 gennaio 2011, n. 354).
La costituzione del diritto di servitù di uso pubblico, secondo la giurisprudenza, può avvenire per atto scritto (ad es. con la stipulazione di una convenzione tra un Ente pubblico e il privato titolare del bene), per usucapione o per dicatio ad patriam. La costituzione per usucapione avviene quando concorrono le seguenti condizioni: l’uso generalizzato del passaggio da parte di una collettività indeterminata di individui, l’oggettiva idoneità del bene a soddisfare il fine di pubblico interesse, il protarsi per il tempo necessario per l’usucapione (cfr. Cass. civ., sez. II, 29 novembre 2017, n. 28632); mentre la dicatio ad patriam consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dare vita al diritto di uso pubblico, mette volontariamente, con carattere di continuità e non precariamente, un proprio bene a disposizione della collettività (cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 12 maggio 2020, n. 2999; T.A.R. Roma, sez. II , 10 maggio 2021, n. 5458).
È opportuno sottolineare che non sussiste un diritto di servitù di uso pubblico quando il passaggio viene esercitato unicamente dai proprietari dei fondi in dipendenza della particolare ubicazione degli stessi, ovvero da coloro che abbiano occasione di accedervi per esigenze connesse ad una privata utilizzazione, oppure, infine, rispetto a strade destinate al servizio di un determinato edificio o complesso di edifici (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 14 febbraio 2021, n. 728; Cass. civ., sez. II, 12 gennaio 2024, n. 1269).
Per quanto attiene la sfera processuale, la legittimazione ad agire o a resistere in giudizio a tutela di una servitù di uso pubblico spetta a ciascun cittadino appartenente alla collettività ed all’ente territoriale (cfr. Cass. civ., sez. II, 13 giugno 2019, n. 15931); infatti sul profilo della responsabilità si evidenzia l’orientamento giurisprudenziale (cfr. T.A.R. Napoli, sez. V, 04 febbraio 2004, n. 1582; T.A.R. Lecce, sez. I, 13 febbraio 2003, n. 460; T.A.R. Puglia, Sez. I, 07 febbraio 2008, n. 375) secondo cui l’esistenza di una servitù di uso pubblico comporta un dovere di intervento dell’ente pubblico responsabile per svolgere attività concrete di cura degli interessi pubblici.
Da ciò consegue che l’esistenza di una servitù di uso pubblico genera un dovere di intervento in capo all’Ente pubblico responsabile relativamente al luogo in cui si è costituita la servitù, nell’ambito delle attività concrete dirette alla cura degli interessi pubblici, poiché la costituzione della predetta servitù comporta che il bene, su cui questa è formata, rientri nel patrimonio dell’Ente pubblico inteso come complesso dei diritti vantati da quest’ultimo su beni pubblici e privati. Avendo l’Ente pubblico il dovere di cura e di gestione dei beni su cui è costituita una servitù di uso pubblico esso ha anche la responsabilità nel caso di sinistri.
Da ultimo si evidenziano talune opinioni contrarie circa la qualificazione di un diritto di servitù come un diritto “di uso pubblico”; in particolare Biondo Biondi in Trattato di diritto civile e commerciale, Le servitù, sottolinea, in primo luogo, che il diritto di servitù non può essere un diritto sui generis poiché il diritto di servitù ha una struttura costante e, in secondo luogo, che trattandosi di un diritto di servitù non può configurarsi un diritto di uso.
da SLRS | 7 Maggio 2024 | diritto fallimentare e societario, diritto immobiliare diritto agrario locazioni
L’agente d’affari in mediazione è colui che mette in relazione due o più parti per la conclusione di un affare, senza essere legato ad alcuna di esse da rapporti di collaborazione, di dipendenza o di rappresentanza (art. 1754 c.c.) nei settori immobiliare, merceologico e dei servizi.
L’attività di agente d’affari in mediazione, anche se svolta in modo discontinuo o occasionale, è disciplinata dalla Legge 03 febbraio 1989, n. 39 e successive modifiche.
L’art. 2 della predetta legge prevede che coloro i quali intendono svolgere un’attività di mediazione, anche se esercitata in modo discontinuo o occasionale, devono richiedere l’iscrizione al ruolo degli agenti d’affari in mediazione istituito presso ciascuna Camera di Commercio; viene, inoltre, richiesto agli interessati il possesso di specifici requisiti, quali:
- essere cittadini italiani o cittadini di uno degli Stati membri della Comunità economica europea, ovvero stranieri residenti nel territorio della Repubblica italiana e avere raggiunto la maggiore età;
- avere il godimento dei diritti civili;
- risiedere nella circoscrizione della camera di commercio, industria, artigianato e agricoltura nel cui ruolo ci si intende iscrivere;
- aver assolto agli impegni derivanti dalle norme relative agli obblighi scolastici vigenti al momento della loro età scolare;
- avere conseguito un diploma di scuola secondaria di secondo grado, avere frequentato un corso di formazione ed avere superato un esame diretto ad accertare l’attitudine e la capacità professionale dell’aspirante in relazione al ramo di mediazione prescelto, oppure avere conseguito il diploma di scuola secondaria di secondo grado ed avere effettuato un periodo di pratica di almeno dodici mesi continuativi con l’obbligo di frequenza di uno specifico corso di formazione professionale;
- salvo che non sia intervenuta la riabilitazione, non essere stati sottoposti a misure di prevenzione, divenute definitive, a norma delle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423; 10 febbraio 1962, n. 57, 31 maggio 1965, n. 575; 13 settembre 1982, n. 646; non essere incorsi in reati puniti con la reclusione ai sensi dell’articolo 116 del regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736, e successive modificazioni; non essere interdetti o inabilitati, falliti, condannati per delitti contro la pubblica amministrazione, l’amministrazione della giustizia, la fede pubblica, la economia pubblica, l’industria ed il commercio, ovvero per delitti di omicidio volontario, furto, rapina, estorsione, truffa, appropriazione indebita, ricettazione, emissione di assegni a vuoto e per ogni altro delitto non colposo per il quale la legge commini la pena della reclusione non inferiore, nel minimo, a due anni.
L’iscrizione del mediatore nei ruoli istituiti presso le Camere di Commercio costituisce un obbligo legislativo che discende da una norma imperativa, non derogabile dalla volontà delle parti (Cass. Civ., sez. III civ., sent. 9 febbraio 2023, n. 4019); di conseguenza, ai sensi dell’art. 8 della legge n. 39/1989, chi esercita l’attività di mediazione senza essere iscritto nel ruolo può essere punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma compresa fra € 7.500,00 e € 15.000,00, oltre che alla restituzione delle provvigioni eventualmente già percepite.
Il ruolo dell’agente d’affari in mediazione di cui all’art. 2 della legge n. 39/1989 è stato soppresso dall’art. 73 del d.lgs. 26 marzo 2010, n. 59, il quale, tuttavia, non ha abrogato le disposizioni della legge del 1989 che disciplinano i requisiti professionali, morali, personali e di indipendenza necessari al fine di svolgere le attività di cui al Capo XI del Titolo III del Libro IV del codice civile.
L’art. 73 del d.lgs. n. 59/2010 stabilisce che le attività disciplinate dalla legge n. 39/1989, ovvero i servizi di intermediazione commerciale e di affari, sono soggetti ad una dichiarazione di inizio attività (SCIA) da destinare alla Camera di Commercio competente, corredata dalle autocertificazioni e dalle certificazioni attestanti il possesso dei requisiti prescritti. La Camera di Commercio, una volta verificato il possesso dei requisiti necessari, provvede all’iscrizione dei relativi dati nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA).
Attualmente la disciplina analitica inerente le modalità d’iscrizione degli agenti d’affari in mediazione nel registro delle imprese, se si tratta di un’attività svolta nella forma d’impresa, o nel repertorio delle notizie economiche e amministrative (REA) sono contenute nel decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 26 ottobre 2011.
Se l’attività di mediatore viene praticata in modo discontinuo o occasionale, ai sensi dell’art. 12 del decreto MSE del 26/10/2011, può essere esercitata solo per un periodo non superiore a sessanta giorni, previa stipula di una polizza assicurativa a copertura dei rischi professionali previsti dalla normativa, ed è subordinata all’iscrizione nell’apposita sezione del REA delle persone fisiche che esercitano detta attività.
In merito al diritto alla provvigione a seguito dell’esercizio dell’attività di mediatore occasionale, ai sensi dell’art. 6 della legge n. 39/1989, tale diritto spetta SOLO a coloro che sono iscritti nei ruoli; coloro i quali, invece, non sono iscritti nei ruoli NON hanno alcun diritto alla provvigione. Sul punto la giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione, ha più volte ribadito il principio secondo cui l’attività di mediazione, anche se esercitata in modo occasionale o discontinuo, da chi non è iscritto al ruolo degli agenti d’affari in mediazione rende inesigibile la provvigione (cfr. Cass. civ., sez. III, sent. 15842 del 10/07/2014; Cass. civ., sez. III, sent. 10205 del 10/05/2011).
Inoltre, chi ha esercitato un’attività di mediazione, seppur occasionale, senza essere iscritto al ruolo non può nemmeno esperire l’azione generale di indebito arricchimento di cui all’art. 2041 c.c., ossia quell’azione concessa nei confronti di chi, senza giusta causa, si sia arricchito a danno di un’altra persona, atteso che l’art. 8 della legge n. 39/1989 comporta l’esclusione di ogni possibilità di conseguire un compenso per l’attività di mediazione svolta da un soggetto non iscritto (Cass. civ., sez. III, sent. 10205 del 10/05/2011).
In conclusione, coloro i quali esercitano un’attività di mediazione occasionale senza essere iscritti al ruolo istituito presso la Camera di Commercio, anche se tale attività abbia proficuamente favorito la conclusione di un accordo tra le parti messe in relazione, non hanno diritto ad alcun compenso (provvigione), né possono esperire un’azione di indebito arricchimento di cui all’art. 2041 c.c.
da SLRS | 7 Febbraio 2024 | diritto fallimentare e societario
Il codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza riserva una significativa importanza agli accordi di ristrutturazione (artt. 57-63 CCII) recependo la normativa già esistente (art. 182 bis l.f.) e aggiungendo nuove tipologie. L’accordo di ristrutturazione dei debiti può assumere un contenuto assai vario dal punto di vista negoziale, potendo tradursi in un pactum de non petendo, in una remissione parziale del debito, in una costituzione di garanzia, in una concessione di nuova finanza; il contenuto dell’accordo potrebbe essere anche di natura meramente liquidatoria. L’accordo, dunque, attraverso la ristrutturazione dei debiti, può perseguire sia finalità di riequilibrio della situazione finanziaria, sia finalità esclusivamente liquidatorie.
Se il Legislatore lascia grande libertà circa il contenuto degli accordi, impone precisi e dettagliati obblighi in capo alle parti: la condotta deve essere improntata ai canoni di veridicità, trasparenza, celerità e i creditori hanno il dovere di collaborare lealmente con il debitore e gli organi della procedura. In ossequio al principio di trasparenza delle trattative l’accordo deve essere sempre accompagnato dal piano economico finanziario che ne consenta l’esecuzione.
È richiesto che il piano e gli accordi siano accompagnati dalla relazione di un professionista indipendente (c.d. attestazione) che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità economica del piano. L’attestazione deve specificare che l’accordo ed il piano debbono essere in grado di soddisfare integralmente il pagamento dei creditori dissenzienti nel termine di 120 giorni dall’omologazione nel caso di crediti già scaduti o di 120 giorni dalla scadenza nel caso in cui tali crediti non siano scaduti alla data della medesima omologazione.
Nell’accordo di ristrutturazione “ordinario” è necessario che i creditori aderenti rappresentino almeno il 60% dell’esposizione debitoria complessiva; i creditori dissenzienti dovranno essere pagati nel termine di 120 giorni di cui sopra.
Dunque la disciplina prevede una fase stragiudiziale in cui l’imprenditore deve acquisire il consenso di almeno il 60% del ceto creditorio per la conclusione di un accordo “ordinario” per la ristrutturazione dei debiti ed una fase giudiziale rappresentata dall’obbligo conclusivo di omologazione da parte del Tribunale a seguito del deposito della domanda di accordo. Gli effetti dell’accordo di ristrutturazione si estendono ai soci illimitatamente responsabili, ad eccezione del caso in cui questi abbiano prestato garanzia (es. fideiussione).
da SLRS | 18 Gennaio 2024 | recupero crediti procedure esecutive
Il pignoramento di quote societarie è uno strumento che permette al creditore di soddisfare il suo credito attraverso la vendita delle quote della società che risultino appartenere al debitore.
La disciplina specifica è dettata dall’art. 2471 c.c. secondo cui “La partecipazione può formare oggetto di espropriazione. Il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese. L’ordinanza del giudice che dispone la vendita della partecipazione deve essere notificata alla società a cura del creditore. Se la partecipazione non è liberamente trasferibile e il creditore, il debitore e la società non si accordano sulla vendita della quota stessa, la vendita ha luogo all’incanto; ma la vendita è priva di effetto se, entro dieci giorni dall’aggiudicazione, la società presenta un altro acquirente che offra lo stesso prezzo. Le disposizioni del comma precedente si applicano anche in caso di fallimento di un socio.”
Ma come procedere nel caso in cui le quote di una S.r.l. siano state cedute dal debitore ad una società fiduciaria? Ebbene, sul punto sono emersi alcuni dubbi in merito all’individuazione del soggetto titolare effettivo delle partecipazioni e sullo strumento processuale da utilizzarsi.
È intervenuto quindi sul punto il Tribunale di Torino con sentenza del 3 giugno 2016.
Il Giudice torinese nella citata pronuncia ha preliminarmente chiarito che alla società fiduciaria è riconosciuta la sola legittimazione ad esercitare in nome proprio un diritto altrui (del mandante), il quale viceversa conserva l’effettiva titolarità delle quote societarie.
Conseguentemente, le azioni e le quote intestate a società fiduciarie non possono per ciò essere sottratte ai creditori, i quali, procedendo ai sensi dell’art. 543 c.p.c., potranno dare avvio ad una espropriazione presso terzi, al fine di accertare l’effettiva titolarità della partecipazione in capo al debitore per tramite della dichiarazione positiva del terzo ex art. 547 c.p.c. o del successivo accertamento ex art. 549 c.p.c..