Sulla possibilità di ancorare una tenda solare al balcone di pertinenza dell’unità immobiliare sovrastante.

Si pone la questione se il proprietario di una unità immobiliare può ancorare una tenda solare nella parte inferiore del balcone di pertinenza dell’unità immobiliare sovrastante: tale diritto può essere esercitato senza limitazioni?Le tende solari sono dei dispositivi in tessuto, sorretti da una struttura costituita da bracci che assicurano il tensionamento del telo ed hanno la funzione di ombreggiare gli ambienti esterni, fra cui i balconi, e diminuire i consumi energetici.

Qualora la tenda solare venga ancorata alla parte inferiore della realità sovrastante al fine di ombreggiare i balconi di un’unità immobiliare sottostante facente parte di un condominio, ci si chiede se il balcone al quale viene ancorata la tenda sia bene comune condominiale oppure sia di proprietà esclusiva del condomino dell’unità immobiliare rispetto alla quale il balcone è parte pertinenziale.

Il codice civile, sul punto, nulla disciplina, e pertanto, ogni fattispecie deve essere interpretata e disciplinata sulla base degli orientamenti giurisprudenziali.

In primo luogo, la giurisprudenza distingue tra due tipologie di balconi: aggettanti e incassati. Il balcone aggettante costituisce un prolungamento dell’unità immobiliare (Cass. civ., sez. II, sent. 5 gennaio 2011, n. 218; sent. 2119/2005), sporgendosi pertanto rispetto alla facciata dello stabile e la parte sottostante dello stesso non funge da soffitto dell’unità immobiliare sottostante. Il balcone incassato non costituisce un prolungamento rispetto alla facciata dell’edificio, non si sporge al di fuori dei muri perimetrali dello stesso, ma vi rimane all’interno; la giurisprudenza, in particolare, ritiene che lo stesso possa essere a filo con la facciata oppure addirittura rientrante rispetto alla stessa (Cass. civ., sez. II, 17 luglio 2007, n. 15913; Corte d’App. Genova, sez. II, sent. 28 giugno 2022, n. 768) e presentarsi chiuso su due o tre lati dell’edificio (Trib. Roma, sez. V, sent. 17 maggio 2018, n. 10232).Nel caso in cui il condomino è proprietario di un’unità abitativa avente un balcone pertinenziale di tipo aggettante, il balcone è di proprietà esclusiva oppure del complesso condominiale?Secondo un costante orientamento giurisprudenziale, il balcone è oggetto di proprietà esclusiva del condomino proprietario dell’appartamento ivi affacciante, in quanto forma parte integrante dello stesso cui accede, rimanendo esclusa la comune proprietà da parte di tutti i condomini (cfr. Cass. civ., sez. II, sent. 5 gennaio 2011, n. 218; sent. 17/07/2007, n. 15913/; sent. 2119/2005; sent. n. 30/07/2004, n. 14576; sent. n. 8159/1996; sent. n. 11775/1992). Pertanto, il proprietario di una abitazione sottostante ad altra avente il balcone aggettante in proprietà esclusiva, al fine di poter ancorare una tenda solare alla parte inferiore del balcone, deve essere munito di espressa e formale autorizzazione da parte del condominio intestatario del bene sovrastante, pena, in caso contrario, la assoluta illegittimità dell’ancoraggio (cfr. Cass. civ., sez. II, 17 luglio 2007, n. 15913; sent. n. 30/07/2004, n. 14576).

In conclusione, tenuto conto degli orientamenti giurisprudenziali, qualora al proprietario di una unità abitativa sottostante ancorasse una tenda solare alla parte inferiore del balcone aggettante in proprietà esclusiva dell’intestatario dell’unità abitativa sovrastante, senza autorizzazione, può essere intimata l’immediata rimozione della struttura ancorata ricorrendo, se del caso, alla tutela dell’Autorità Giudiziaria.

 

 

 

 

 

 

 

 

Dichiarata incostituzionale l’esclusione delle persone singole dall’adozione internazionale dei minori.

Comunicato del 21 marzo 2025 della Corte Costituzionale:

Anche le persone singole possono adottare minori stranieri in situazione di abbandono: e’ quanto si legge nella sentenza numero 33, depositata oggi, 21.03.2025, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo 29-bis, comma 1, della legge numero 184 del 1983, nella parte in cui non include le persone singole fra coloro che possono adottare un minore straniero residente all’estero. La Corte, chiamata a pronunciarsi sulla disciplina dell’adozione internazionale che non include le persone singole fra coloro che possono adottare, ha affermato che tale esclusione si pone in contrasto con gli articoli 2 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. La disciplina dichiarata illegittima comprimeva, infatti, in modo sproporzionato l’interesse dell’aspirante genitore a rendersi disponibile rispetto a un istituto, qual è l’adozione, ispirato a un principio di solidarietà sociale a tutela del minore. L’interesse a divenire genitori, pur non attribuendo una pretesa a adottare, rientra nella libertà di autodeterminazione della persona e va tenuto in considerazione, insieme ai molteplici e primari interessi del minore, nel giudizio sulla non irragionevolezza e non sproporzione delle scelte operate dal legislatore. La Corte ha, dunque, rilevato che le persone singole sono in astratto idonee ad assicurare al minore in stato di abbandono un ambiente stabile e armonioso, fermo restando che spetta poi al giudice accertare in concreto l’idoneità affettiva dell’aspirante genitore e la sua capacità di educare, istruire e mantenere il minore. Tale accertamento può tenere conto anche della rete familiare di riferimento dell’aspirante genitore. Evidenziate le garanzie poste a tutela del minore, la Corte ha altresì osservato che, nell’attuale contesto giuridico-sociale caratterizzato da una significativa riduzione delle domande di adozione, il divieto assoluto imposto alle persone singole rischia di «riflettersi negativamente sulla stessa effettività del diritto del minore a essere accolto in un ambiente familiare stabile e armonioso».

 

 

 

 

 

 

Dimissioni per giusta causa a seguito dell’avvio di un procedimento disciplinare: sono legittime?

In materia di dimissioni del lavoratore dipendente, una particolare attenzione richiede il caso in cui il lavoratore rassegni le dimissioni sulla base di una cosiddetta giusta causa.

Le dimissioni per giusta causa si configurano in presenza di atti di particolare gravità tenuti dal datore di lavoro, a seguito dei quali non è possibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, in quanto viene meno il rapporto fiduciario tra il lavoratore e il datore di lavoro (art. 2119 c.c.).

La giusta causa delle dimissioni, secondo la giurisprudenza, può consistere nel mancato pagamento della retribuzione dovuta, nel mancato versamento dei contributi previdenziali, nell’aver subito molestie sessuali sul luogo di lavoro, nel mobbing (Cass. civ., sentenza n.143/2000), nell’improvviso e ingiustificato trasferimento del lavoratore in altra sede (Cass. civ., sentenza n. 1074/1999), nella richiesta o pretesa di prestazioni illecite oppure in un demansionamento (Cass. civ., sentenza n. 811/2021).

Laddove sussista una delle summenzionate cause giustificative delle dimissioni, il lavoratore può interrompere immediatamente il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, senza dare alcun preavviso, con l’effetto che questi diviene titolare di una moltitudine di diritti, tra cui, in particolare, quello alla indennità sostitutiva del preavviso consistente in un indennizzo equivalente all’importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. L’indennità sostitutiva del preavviso, di cui all’art. 2118 c.c., si deve calcolare computando ogni compenso di carattere continuativo, con esclusione di quanto viene corrisposto a titolo di rimborso spese (art. 2121, comma 1, c.c.); inoltre, tale indennità non incide nella base di computo del TFR (Cass. civ., sentenza 19 gennaio 2023, n. 1581), in quanto essa non è dipendente dal rapporto di lavoro, ma si riferisce a un periodo non lavorato, una volta avvenuta la cessazione del detto rapporto (cfr. Cass. civ., sent. 29 novembre 2012, n. 21270).

Qualora il datore di lavoro negasse l’esistenza di una giusta causa, alla base del recesso del lavoratore, e si rifiutasse di versare l’indennità sostitutiva del preavviso, il lavoratore potrebbe agire in giudizio per chiedere l’accertamento della giusta causa delle dimissioni, nonché per vedersi riconosciuto il diritto a percepire tale indennità, oltre che per la restituzione dell’importo eventualmente trattenuto a titolo di mancato preavviso.

Un caso particolare ha ad oggetto il recesso per giusta causa del lavoratore a seguito del mero avvio di un procedimento disciplinare per fatti accaduti esternamente rispetto all’ambito lavorativo: Tizio, a seguito dell’avvio di un procedimento disciplinare da parte dell’azienda nei suoi confronti, rassegna le dimissioni per giusta causa, venuto meno il rapporto fiduciario; l’azienda, preso atto delle dimissioni e del mancato preavviso, trattiene l’indennità di mancato preavviso, ritenendo che le dimissioni del lavoratore siano “volontarie”; Tizio, vedendosi trattenere l’indennità di mancato preavviso, intende agire in giudizio per ottenerne la restituzione.

In questo caso, al lavoratore non si consiglia di agire in via giudiziale per il recupero della summenzionata indennità: il mero avvio di un procedimento disciplinare da parte dell’azienda datrice di lavoro, infatti, non costituisce giusta causa delle dimissioni, in quanto il lavoratore, in tale eventualità, deve spiegare le ragioni del proprio comportamento, oggetto del suindicato procedimento avviato, nelle sedi opportune ovvero impugnando la irrogata misura disciplinare.

 

 

 

 

 

 

Ripartizione spese di manutenzione dei lucernari in ambito condominiale

In materia di ripartizione delle spese di manutenzione delle  parti comuni in ambito condominiale, si ritiene di fare riferimento ai criteri generali stabiliti dall’art. 1123 del codice civile. In particolare, la norma stabilisce che «le spese necessarie per la conservazione e per il godimento delle parti comuni dell’edificio, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni deliberate dalla maggioranza sono sostenute dai condomini in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno, salvo diversa convenzione» (comma 1); tuttavia, la norma dispone altresì che se si tratta di «cose destinate a servire i condomini in misura diversa, le spese sono ripartite in proporzione dell’uso che ciascuno può farne» (comma 2). La norma, pertanto, individua due criteri di addebito delle spese relative alle parti comuni di un condominio.

Ciò premesso particolare attenzione merita la ripartizione degli oneri relativi ai  lucernari che si concretizzano in  aperture ubicate sul tetto che permettono il passaggio di luce ed aria nell’ambiente sottostante; questi   non sono esplicitamente indicati all’art. 1117 del codice civile, il quale propone un’elencazione esemplificativa di quelle che sono le parti comuni di un edificio. In ragione di quanto sopra, pur essendo la struttura compresa nel tetto, in quanto tale parte comune, al fine di stabilire la natura ( parte comune o in  proprietà esclusiva)  del lucernario, si deve  verificare, in primo luogo, se vi è menzione espressa dello stesso nell’atto di acquisto della singola unità abitativa oppure, in mancanza, si dovrà valutare nei confronti di chi questo bene porta utilità e/o beneficio (cfr. Trib. Velletri n. 1066/2024).

È possibile, di conseguenza, distinguere due tipologie di lucernari:

  • i lucernari condominiali, installati sopra zone comuni, accessibili a tutti i condomini;
  • i lucernari in proprietà privata che, pur insistendo nel tetto, servono un’unità immobiliare in proprietà esclusiva di un singolo condomino (Cass. civ. n. 2285/1963; n. 900/1955; n. 2267/1997).

Qualora un lucernario necessiti di manutenzioni, chi sarà tenuto a sopportarne la spesa? La Suprema Corte di Cassazione, con sentenza del 18 gennaio 2019, n.ro 1422, chiarisce che le spese di manutenzione dei lucernari seguono l’utilità arrecata a chi se ne avvale, in quanto pur essendo inseriti in un manufatto  costituente parte comune, “non rientrano fra le parti necessarie o comunque destinate all’uso comune, essendo accidentali rispetto alla struttura essenziale del fabbricato e piuttosto costituiscono, di regola, elementi integranti dell’appartamento che vi ha accesso o nel quale comunque immettono luce ed aria, sicché per essi non opera la presunzione di condominialità”.

Da quanto qui esposto, si deduce  che in materia di ripartizione delle spese di manutenzione dei lucernari nell’ambito di un condominio va ad applicarsi  il seguente criterio:

  • se i lucernari sono prospicenti  zone comuni dell’edificio, accessibili a tutti i condomini indifferentemente, le spese di manutenzione degli stessi dovranno essere sostenute da tutti i condomini, in proporzione ai millesimi di proprietà di ciascuno di essi, ai sensi dell’art. 1123 del codice civile;
  • se i lucernari sono asserviti esclusivamente ad un’unità immobiliare in  proprietà di un singolo condomino,  le spese di manutenzione sono poste a carico dell’intestatario  della realità che ne beneficia.

 

 

 

 

 

 

Il potere impositivo dei Consorzi di Bonifica (Regione Veneto)

I consorzi di bonifica trovano disciplina nell’art. 862 c.c., ai sensi del quale si evidenzia che essi sono preordinati all’esecuzione, alla manutenzione e all’esercizio di opere o di servizi di comune interesse volti all’attività di opere di bonifica, tra cui l’esecuzione di opere irrigue, ed hanno personalità giuridica di diritto pubblico (cfr. art. 11 c.c.), (Galgano, Pubblico e privato nell’organizzazione giuridica, in “Contratto e Impresa”, 1985, p. 359).

I consorzi di bonifica per l’esecuzione, la manutenzione e l’esercizio delle opere pubbliche di bonifica e per l’adempimento dei loro fini istituzionali, hanno il potere di imporre contributi ai proprietari consorziati; tale potere impositivo trova fondamento nella legislazione statale e regionale. Ai sensi dell’art. 864 c.c. i contributi richiesti per l’esecuzione, l’esercizio e la manutenzione delle opere di bonifica sono esigibili secondo le norme previste per l’imposta fondiaria, di conseguenza la competenza per materia a conoscere delle relative controversie appartiene alle Commissioni tributarie alle quali è stata attribuita giurisdizione ai sensi dell’art. 12 della legge numero 448 del 2001.

In particolare, con il D.P.R. n. 11 del 1972 sono state trasferite alle Regioni a statuto ordinario delle funzioni amministrative statali in materia di agricoltura e foreste, di caccia e di pesca nelle acque interne e dei relativi personali ed uffici, e, ai sensi dell’art. 1 co. 2 lettera h), tra queste è ricompresa anche l’attività di bonifica.

La fonte normativa regionale rilevante in materia è la legge regionale n. 12 approvata dal Consiglio regionale del Veneto l’8 maggio 2009 avente ad oggetto «Nuove norme per la bonifica e la tutela del territorio».

Sintetizzando le norme contenute nella predetta legge (segnatamente gli artt. 35 e 38), si evidenzia che soggetti al potere impositivo del Consorzio di Bonifica sono: le proprietà consortili e gli immobili che ricadono nel comprensorio consortile i quali traggono un beneficio dall’attività di bonifica. La giurisprudenza della Corte di Cassazione dispone che i consorzi di bonifica non possono esercitare poteri impositivi diversi da quelli fissati dalla legge; dalla normativa, infatti, emerge che anche gli immobili extra agricoli possono essere assoggettati a contribuzione, a condizione però che risultino compresi nel perimetro di contribuenza e che abbiano conseguito o possano conseguire un beneficio particolare derivante dall’opera di bonifica (cfr. Cassazione civile, 8 luglio 1993, n. 7511).

È necessario, dunque, delineare la nozione di beneficio e il suo contenuto.

Come già sottolineato dalla sentenza della Cassazione sopra riportata, il potere impositivo di cui sono titolari i consorzi ha per oggetto tutti gli immobili che traggono beneficio dall’attività di bonifica, qualunque sia la loro destinazione sia agricola che extra-agricola; pertanto, i benefici che derivano dalle opere di bonifica, la cui presenza impone a chi ne beneficia una situazione giuridica soggettiva passiva al potere impositivo, possono distinguersi in due categorie: il beneficio di bonifica in senso stretto e il beneficio di bonifica in senso lato.

Il beneficio di bonifica in senso stretto è proprio degli immobili che ricadono nel comprensorio e che ottengono un concreto vantaggio di carattere fondiario, come diretta conseguenza dell’esecuzione, esercizio e manutenzione delle opere di bonifica. Mentre, il beneficio di bonifica in senso lato deriva ai soggetti non appartenenti al consorzio ma che utilizzano la rete di bonifica come «recapito di scarichi anche se depurati» (ex art. 27 co. 3 l. n. 36/1994); esso si potrebbe definire come beneficio relativo agli scarichi.

La Corte di Cassazione sancisce che: «l’obbligo di contribuire alle opere eseguite da un consorzio di bonifica e, quindi, l’assoggettamento al potere impositivo di quest’ultimo, postulano, ai sensi degli art. 860 c.c. e 10 r.d. 13 febbraio 1933 n. 215, la proprietà di un immobile che sia incluso nel perimetro consortile e che tragga vantaggio da quelle opere; detto vantaggio, peraltro, deve essere diretto e specifico, conseguito o conseguibile a causa della bonifica, tale cioè da tradursi in una “qualità” del fondo, mentre è ininfluente la destinazione agricola o extra agricola del bene» (cfr. Cassazione civile, sez. un., 14 ottobre 1996, n. 8960, Corte d’Appello di Napoli, sez. I, 26 giugno 2006, n. 2154).

Tuttavia, l’obbligo di contribuire alla manutenzione delle opere consortili (come possono essere le opere irrigue) può sussistere anche in capo a soggetti giuridici i quali, pur non essendo né parti del contratto di consorzio né beneficiari delle opere consortili, abbiano commesso una violazione regolamentare violando le disposizioni in materia di utilizzo e tutela di queste ultime.

Nella regione Veneto, partendo dalla normativa di riferimento si evidenzia come il “Regolamento per l’utilizzazione delle acque a scopo irriguo e per la tutela delle opere irrigue” (approvato con deliberazioni dell’Assemblea consortile n. 11 del 29.06.2011 e n. 19 del 03.11.2011, con recepimento indicazioni di cui al provvedimento della Giunta Regionale del 04.10.2011, e successivamente integrato con delibere dell’Assemblea consortile n. 16 del 29.6.2015 e n. 22 del 04.09.2015 e da ultima n. 8 del 28.06.2016, approvata con provvedimento della G.R. del 19.07.20), a cui si può assimilare il “Regolamento per l’esercizio e la manutenzione delle opere di bonifica” (approvato con delibera dell’Assemblea consortile n. 12 del 29.06.2011 così come modificato con deliberazione del Consiglio di Amministrazione n. 210 del 01.19.2011 e integrato con le indicazioni di cui al provvedimento della Giunta regionale 04.10.2011), prevede agli artt. 6, 15 e 20 disposizioni il cui mancato rispetto, ai sensi dell’art. 21 dello stesso Regolamento, comporta: « -oltre al risarcimento, a termini di legge, dei danni diretti eventualmente causati al Consorzio e/o a terzi l’applicazione delle seguenti penali, a titolo di risarcimento del danno alla collettività degli utenti, sotto il profilo del turbamento della disciplina, dell’ordine e dei diritti degli altri Consorziati, nella misura di seguito indicata […]».

Di conseguenza, nel caso in cui un soggetto giuridico violasse una disposizione del predetto regolamento consortile, la violazione sarà debitamente contestata, a mente dell’art. 22 del Regolamento, sanzionata e la manutenzione delle opere spetterà al soggetto giuridico trasgressore delle norme regolamentari. A titolo esemplificativo: nell’ipotesi in cui un immobile, quale un Condominio, non parte del contratto di Consorzio e non beneficiario delle opere di bonifica poste in essere dal Consorzio, dovesse realizzare delle opere contigue ai canali di irrigazione consortili, eccedendo il perimetro delle fasce di rispetto dettate dal comma 2 dell’art. 6 del Regolamento, senza alcuna previa autorizzazione o concessione da parte del Consorzio ex art. 16 del Regolamento, si ritiene spetterà al Condominio assumersi gli oneri di manutenzione ordinaria e straordinaria delle opere realizzate e dei danni eventualmente causati.